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Home›Cronaca›L’inchiesta: la piaga del gioco d’azzardo, il racconto di tre vite rovinate

L’inchiesta: la piaga del gioco d’azzardo, il racconto di tre vite rovinate

By Redazione
11 Settembre 2014
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images-1Una volta erano i centri scommesse. Oggi è l’inferno di slot machine e sale bingo. Una volta era tutto clandestino. Oggi è tutto regolare e lo Stato finisce per essere inevitabilmente complice visti gli introiti che il gioco gli consente di ottenere. Le piccole “Las Vegas” sorte in tutta Italia sono popolate, ogni giorno, da decine di migliaia di persone che, come degli zombie, compiono sempre lo stesso percorso che li porta alle sale da gioco e puntualmente depauperano il loro patrimonio e si indebitano. Napoli è la capitale del gioco, sia di quello regolare, ovvero registr

ato ai monopoli dello Stato, che di quello “nero”. Secondo uno studio recente sul gioco d’azzardo realizzato dal sociologo Maurizio Fiasco, dal titolo “Il gioco d’azzardo e le sue conseguenze sulla società italiana. Il peso del gioco illegale nelle province italiane”, nel solo capoluogo campano, ogni anno, vi è un giro di affari che supera un miliardo e mezzo di euro. In tutta Italia le risorse che con
images-2fluiscono illecitamente nelle mani delle organizzazioni criminali e mafiose attraverso il “nero” delle macchinette si aggira intorno agli 8,6 miliardi di euro.

Non è un caso, quindi, che a Napoli si possano incontrare tante storie drammatiche di persone piegate in due dal gioco, attirate dall’esplosione di slot machine e sale bingo in città e poi sv

uotate di tutto: dai soldi alla dignità. Persone che ottengono un soccorso dall’Asl oppure dalle associazioni presenti sul territorio che mettono a loro disposizione un pool di esperti in grado di aiutarli a rompere la catena della dipendenza dal gioco.

 

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Andrea, 34 anni, geometra dei Camaldoli con un lavoro da 800 euro al mese ed un figlio da mantenere insieme con la moglie casalinga, si è indebitato fino al collo per colpa del gioco. Doveva essere la sua “rivincita”, il tentativo di svoltare, di avere finalmente i soldi per fare una vita nuova. Poi, alla curiosità ed alla speranza, sono subentrati l’accanimento e la dipendenza. Fino al punto di av

ere debiti con persone poco raccomandabili che gli hanno prestato dei soldi e la risoluzione del problema, qualche mese fa, grazie all’intervento di un parente. Che ha dovuto restituire tutto il denaro, con gli interessi ovviamente. “All’inizio era un tentativo – spiega Andrea – poi mano a mano è diventata un’ossessione. Pensavo di poter dominare il gioco, poi mi sono reso conto che non era così quando mi divertivo a giocare solo spendendo grosse somme, più di quello che potevo permettermi. Sapevo che era sbagliato in cuor mio, pensavo a mia moglie. Finché, poi, per recuperare i soldi sono arrivato al punto di contattare una persona che “vende” i soldi con gli interessi”. “Vendere i soldi”, espressione usata a Napoli per indicare gli usurai, quelli che di mestiere – se così si può definire – prestano i soldi a chi ha bisogno di denaro liquido per poi farsi restituire la somma con un interesse altissimo applicato. Una volta, a guidare questi giri di soldi, erano soprattutto le donne. Oggi, anche a causa del proliferare di indebitam

enti per il gioco, si sono aperte numerose attività (legalizzate e non) che danno prestiti alle persone in difficoltà. E non è nemmeno un caso che abbiano aperto vicino a delle sale bingo. Così come pure diversi negozi “compro oro” sono sorti in prossimità delle sale da gioco in cui sono presenti le slot machine. Tutto è organizzato per spillare soldi ai clienti. Che, quando iniziano a spendere tutto quello che hanno e finiscono i soldi, ovvero la possibilità di puntare ancora e continuare a giocare, poi cercano qualsiasi modo possibile per fare soldi velocemente, guidati dalla dipendenza per il gioco che ormai li ha pervasi. Chiedere un prestito, vendere un oggetto di valore al “compro oro”, oppure vendere addirittura il proprio corpo. Come avviene in diverse sale bingo di Napoli.

Concetta, 46 anni, è disposta ad avere rapporti orali nei bagni di una nota sala bingo di Napoli pur di avere venti euro da poter puntare una volta finiti i suoi soldi. Cosa che, in certe serate particolarmente sfortunate, capita anche più di una volta. Non è difficile ottenere questo “servizio” per i frequentatori delle sale da g

ioco: basta far vedere di avere un bel po’ di soldi al tavolo da gioco e poi farsi vedere vicino ai bagni. Pericoloso, però, andare da soli: il rischio di essere rapinati una

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volta nelle toilette non è poi così lontano. Concetta non è l’unica donna che si spinge così oltre per la smania di giocare. Ma di sicuro è un’assidua frequentatrice delle sale bingo. “Giuvino’ questa è una brutta droga – spiega sconsolata – non giocate, non fate la mia fine. A me, però, mi piace proprio giocare alle macchinette. Che ci posso fare. Ogni giorno scendo di casa e vengo qui alla sala bingo convinta di mettermi in tasca bei soldi ma alla fine quello che vinci una volta lo perdi la volta successiva. Quando entro – conclude Concetta – non vedo l’ora di scambiare i 20 euro al cambi

amonete per poter giocare”.

Sono tante le strade che portano alla dipendenza da gioco d’azzardo. In primis, c’è la voglia di superare difficoltà economiche, seguita dallo svago, l’abitudine culturale o, semplicemente, la voglia di fare soldi facili. Proprio per quest’ultimo motivo, MaurizioUnknown34 anni, residente a Fuorigrotta, ha iniziato a giocare. “Sono un ex giocatore patologico – spiega – che è uscito dalla dipendenza di slot machine, videolottery, gratta-e-vinci e poker online solo dopo aver toccato il fondo. Per colpa di questa malattia ho dilapidato i miei risparmi che avevo su un libretto postale, ho ch

iuso un negozio che gestivo dal 2000 ed ho rovinato la mia vita. Ora ne sono uscito, grazie all’aiuto della mia famiglia, e mai più entrerò in una sala da gioco. Questi luoghi portano a comportamenti compulsivi, creano dipendenza, ti annullano. Oggi quando entro in un bar e vedo qualcuno che gioca alle macchinette, mi si stringe il cuore, provo pena ed un senso di vergogna per lui”.

Il paradosso italiano del gioco d’azzardo è che lo Stato sovvenziona progetti per aiutare le persone ad uscire dal tunnel, ma permette che ad ogni venti metri di marciapiede i pedoni trovino le slot machine in bar e tabaccherie. E poi, affianco, i negozi “compro oro”.

Per non parlare, poi, di quello che avviene a Napoli e provincia. Esercizi commerciali che hanno più slot machine di quelle consentite, tabaccherie che hanno le macchinette non collegate coi monopoli dello Stato, bar al cui interno vi è una sala totalmente abusiva adibita al gioco. E poi sale bingo che hanno fino a cento macchinette quando ne potrebbero avere un massimo di venti. Il “nero” che si produce all’interno delle sale da gioco napoletane è un affare su cui i clan camorristici hanno messo le mani da oltre dieci anni ormai. Con la complicità dello Stato che da un lato ci guadagna in tasse ma dall’altro prova a fronteggiare i tantissimi locali “irregolari”.

C’è chi ha creato apposta le società di noleggio delle macchinette, c’è chi impone che debbano essere installate in determinati esercizi commerciali e c’è chi riscuote tutti i mesi la quota, il “pizzo”. Napoli è la capitale europea del gioco d’azzardo. Tutto parte dal capoluogo campano.

Tutto è partito da qui, negli anni Novanta, quando il re indiscusso del gioco era Renato Gra

sso, 51 anni, imprenditore nel settore dei videogiochi e slot machine, bingo, videopoker e scommesse sportive, titolare della ditta “3 G” di Napoli, considerato dagli inquirenti vicino al clan dei Casalesi, fazione di Mario Iovine e del nipote latitante fino a poco fa Antonio Iovine, detto “o’ ninno”. Nel 2009, provato dalla latitanza, Grasso si presentò nel carcere di Regina Coeli a Roma dove i carabinieri del Nucleo investigativo di Caserta e del Gico della Guardia di Finanza gli notificarono due ordinanze di custodia cautelare. La prima ordinanza a carico di Grasso fu emessa nel maggio del 2008. Il provvedimento colpì altre 55 persone affiliate al latitante Iovine tra cui la cognata Rosaria De Novellis, moglie del defunto fratello Carmine e lo stesso nipote. I magistrati accusarono Grasso di imporre le slot machine ai bar e alla sala gioco con l’avallo del clan divedendo i compensi di un giro d’affari milionario.

Il gruppo dei Casalesi facente capo ad Antonio Iovine voleva conquistare il mercato capitolino attraverso un’impresa di istallazione dei videogiochi in esercizi pubblici e riusciva a controllare il mercato anche delle scommesse calcistiche, monitorate

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in tempo reale grazie alla centralizzazione delle informazioni su un server, collegato in rete alle postazioni attraverso linee telefoniche Adsl, che calcolava e quantificava subito tutte le giocate effettuate, le vincite e i guadagni. L’anello forte della catena, secondo la magistratura, era proprio la “3G”, un’impresa apparentemente sana, che si avvaleva della copertura formale della ditta “Gemme Giochi” di Gianfranco Maddalena di Sant’Anastasia, nel Vesuviano. Secondo le indagini venne stretto un patto tra Mario Iovine, parente del superlatitante Antonio e nipote del più noto boss Mario Iovine successore di Antonio Bardellino ucciso a Cascais, ed i fratelli Renato e Francesco Grasso, titolari della ditta “3G” di Napoli che si occupa di istallazione dei videogiochi. Mario Iovine, dunque, secondo le indagini, era il socio occulto della ditta di Renato Grasso, già condannato per favoreggiamento al clan Grimaldi e Mallardo. Il legame col superlatitante Antonio Iovine era riscontrabile nel fatto che, stando alle intercettazioni, la retribuzione del legale rappresentante del superla

titante veniva tratta con i proventi dal ramo d’azienda, retribuzione concessa alla fonte dai Grasso. Due anni dopo, nel 2011, un altro fratello di Renato Grasso, Luciano, fu trovato morto su un terrazzo con affianco una lettera di addio in cui motivava il suicidio con la pressione per le indagini che lo avevano travolto. «Sono un perseguitato – scrisse nella lettera – io non c’entro nulla con la camorra, volevo rifarmi una vita ma mi è stato impedito». Luciano Grasso pare fosse caduto in una forte depressione dopo

l’ultima inchiesta dell’agosto 2011 che aveva portato al sequestro della nuova azienda che aveva creato per la gestione delle slot machine a Roma.

 

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Sta di fatto che, a partire dagli anni Novanta, in tutta Italia i Casalesi hanno imposto l’installazione dei videopoker e delle slot machine fiutando, grazie a Renato Grasso, l’affare milionario. Il clan, per mettere in pratica il suo piano, ha anche assoldato numerosi ingegneri e tecnici informatici per costituire una sorta di Monopolio parallelo e frodare quello legittimo, riciclando denaro sporco nelle sale bingo sparse nello Stivale e soprattutto attraverso slot machine e giochi online, che venivano registrati su portali internet all’estero, soprattutto in Romania e a Malta, dove Nicola Schiavone, il figlio di “Sandokan” noto come il padrone di “Gomorra”, ha molti interessi economici. Il clan imponeva i videogiochi da installare, assicurando, ai gestori, di supportare i costi di un eventuale sequestro e il pagamento delle multe. Cosa che avviene tuttora. Solo che adesso lo scenario è ancora più esteso. Ora non c’è solo un clan a dominare il gioco d’azzardo: ora ogni zona di Napoli e dell’hinterland partenopeo, ha il suo clan che controlla il settore del gioco. Le forze dell’ordine cercano di fronteggiare il fenomeno come possono: oggi, i sequestri di slot machine irregolari sono all’ordine del giorno, specie nel Napoletano. Così come gli arresti di persone incaricate di sabotare le macchinette, tecnici informatici ai quali i clan hanno chiesto di progettare software per schermare le schede elettroniche delle slot machine in modo che, al momento del gioco, si interrompessero le comunicazioni con l’Aams (Amministrazione Autonoma Monopoli di Stato) e non venga registrato il reale flusso di denaro giocato. Le macchinette, infatti, sono predisposte per attivare, al momento dell’inizio della giocata, una comunicazione con i Monopoli, che registrano tutto. Grazie alle schede manomesse, quindi, le macchinette risultano spente anche quando funzionano. Una volta erano i centri scommesse. Oggi è l’inferno.

di Alessandro Migliaccio

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