Aldo Masullo: confessioni di un filosofo
Vomerese da 70 anni, insignito della cittadinanza onoraria
Non canta e non balla, né tira calci a un pallone, ma è lui la vera pop star di Napoli. La più inseguita, la più longeva e la più trasversale. Quando partecipa alla presentazione di un libro o a un convegno, gli applausi più lunghi sono per lui. Aldo Masullo, 95 anni, nato ad Avellino, ma da 70 anni vomerese, due mesi fa è stato insignito della cittadinanza onoraria dal Comune di Napoli. Prima di lui Maradona e Careca, dopo Alberto Angela. Per una vita ha insegnato Filosofia morale all’università, è stato Deputato e Senatore prima per il partito Comunista e poi per le nuove sigle della sinistra.
Professore Masullo, come si sente da cittadino onorario?
«La questione più attuale è come mi senta adesso dopo essere appena stato operato per l’inserimento di un peacemaker, cosa più delicata della cittadinanza onoraria. Va abbastanza bene. Per quanto riguarda la cittadinanza onoraria è ovvio che ne sia contento, è un riconoscimento di appartenenza. Non c’è cosa più importante nella vita che quella di essere riconosciuti come appartenenti a una cerchia di persone, a un mondo di valori».
Oggi ha ancora senso sentirsi o definirsi “napoletano”?
«Per principio non mi sono mai sentito cittadino di uno stato o una città particolari, mi sono sempre considerato un cittadino del mondo. Essere nato in un luogo non significa per questo riceverne una identità, piuttosto significa prendere parte a una storia condivisa, della quale inevitabilmente si finisce per farne parte».
Come è cambiato il Vomero negli ultimi 70 anni?
«Come è cambiato tutto nel mondo. Quando venni qui per la prima volta, nel 1944, il viale Michelangelo, dove ancora abito, mi parve un’oasi nella città colpita dalla ferocia della guerra. Dovevo conferire con un assistente dell’allora professore che avrebbe dovuto seguirmi nella laurea. Questo assistente si chiamava Pugliese Carratelli, poi illustre studioso dell’antichità, che abitava al viale Michelangelo, nel lato opposto al mio».
Allora com’era il suo viale?
«Neanche del tutto completato dal punto di vista edilizio. C’erano soltanto gli alberi in fiore, era primavera. Fu un incontro felice e forse, senza che io me ne rendessi conto, segnò un aspetto della mia vita».
Due mondi diversi, il Vomero di allora e quello di oggi?
«Non si possono paragonare, però il Vomero tra le tante realtà urbane violentate in questa città è quella che conserva qualche traccia dell’antica civiltà, per lo meno nella struttura urbanistica della parte centrale: piazza Vanvitelli come perno e le vie squadrate intorno, come da progetto realizzato tra fine Ottocento e primi del Novecento. Così nacque il Vomero come parte urbana di Napoli, non più solo come luogo di coltivazioni o di delizie per le piccole ville che, via via, vi si trovavano».
Si è anche incattivito come quartiere?
«È il destino comune. Inevitabilmente l’eccesso di mezzi di comunicazione, i traffici, il disordine, il caos, travolgono anche il Vomero».
Lei, filosofo, si trova ancora bene in un quartiere sempre più a trazione commerciale?
«Incontro e conosco ancora molti vomeresi che hanno conservato uno stile di vita, un modo di riflettere sulle cose e rapportarsi agli altri che definirei altamente civile.
Certamente anche qui si è sommersi da ondate di affarismo, commercio spesso volgare, locali dove non si fa altro che mangiar male. Però…»
Però?
Quel nucleo originario di vomeresi che era ed è formato da professionisti, studiosi, ingegneri, impiegati di un certo livello, per quanto in via di riduzione, ancora si trova. Insieme a loro, c’è un popolo altrettanto, se non più, degno, che non va confuso con quel ceto volgarissimo oggi imperante. Il vero popolo è fatto di persone per bene, artigiani, operai. Li incontro e mi salutano con affetto quasi a riconoscere in me uno dei loro.
Ecco una delle ragioni per cui mi sento veramente appartenente a questa città».
Consigli di lettura per i ragazzi che hanno finito la scuola?
«Un classico, che ha risposte anche su domande attuali.
Letture come l’Odissea, che hanno dietro di loro il collaudo dei secoli, e insegnano quell’italiano che molti si sforzano di dimenticare».
Ugo Cundari
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