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Home›Attualità›In Evidenza›Offerta in chiesa? C’è il sacro tariffario. Quando il sogno di sposarsi diventa un incubo

Offerta in chiesa? C’è il sacro tariffario. Quando il sogno di sposarsi diventa un incubo

By Redazione
2 Luglio 2014
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di Alessandro Migliaccio

Il matrimonio è il giorno più bello della vita. Ma quanto ci costa? Tra vestito, ristorante, bomboniere, partecipazioni e viaggio di nozze il sogno degli sposini rischia di diventare un incubo. Ma, almeno, per la funzione religiosa la chiesa chiederà al massimo un piccolo contributo a piacere. Siamo sicuri? Ci facciamo un giro tra le chiese di Napoli per verificare se vengono applicati dei prezziari fissi e soprattutto a quanto ammonta la cosiddetta offerta libera. E… sorpresa! Nel capoluogo campano esistono dei veri e propri tariffari fissi dai quali una coppia che vuole sposarsi in chiesa non può sottrarsi. Purtroppo, tale situazione, riguarda una gran parte dei parroci in servizio a Napoli, anche se non mancano preti che continuano a dire agli sposi che “basta un’offerta a piacere” senza imporre niente. La premessa con cui aprono il discorso tutti i sacerdoti e gli addetti impiegati nelle chiese del nostro tour sui tariffari dei sacramenti che abbiamo avvicinato chiedendo informazioni è che per unirsi in matrimonio bisogna prima di tutto volersi bene ed amare il Signore. Ma a quanto pare non basta per coronare il proprio sogno d’amore. Ci vogliono i soldi! Con la scusa dell’allestimento dell’illuminazione e della pulizia, parte la richiesta del denaro. Ecco quanto abbiamo raccolto durante il nostro viaggio tra le chiese partenopee. Al cento storico una piccola chiesa ci ha chiesto 250 euro per la funzione con sconto non applicabile. Ma è il male minore in questa zona dato che in altre chiese un po’ più “grandi” il prezziario fisso è di 300 euro più 100 per l’organista escluso i fiori, in più con l’obbligo di prendere il fotografo indicato dalla chiesa senza possibilità di cambiare. Un’altra chiesa ci ha invece domandato 650 euro compreso di tutti gli optional: fiori, tappeto, piante, organo e parcheggio. Un servizio completo, non c’è che dire, peccato che sia estremamente caro e obbligatorio. Al Vomero si varia dai 200 ai 500 euro per l’offerta al prete. A Posillipo le tariffe salgono, siamo nella “Napoli bene”: 700 euro più il costo della prenotazione che è di 100 euro. Un’altra chiesa, nel quartiere Chiaia, ci ha invece richiesto 500 euro comprensivo del fioraio, sempre indicato dal “personale religioso”. Nella chiesa di Capodimonte, agli sposini, viene chiesta un’offerta di 700 euro, compresiva del fioraio, della musica, del tappeto e dell’inginocchiatoio, ornamenti che in altre chiese vengono fatti pagare a parte. Analoga richiesta “all inclusive” viene fatta dagli impiegati ecclesiastici se si intende sposarsi al Duomo di Napoli, la chiesa del Cardinale Crescenzio Sepe, con la differenza che qui l’offerta è leggermente minore: 600 euro. Dulcis in fundo siamo andati nella basilica più grande e famosa della città che ci ha chiesto la cifra esorbitante di 850 euro con tappeto, fiori, ed anche il cantante. E guai a non volerlo. E’ compreso nel prezzo e se non lo vuoi comunque lo paghi. A questo punto, capito il meccanismo che non prevede alcuno sconto, chiediamo almeno di poter avere la ricevuta fiscale di quello che andavo a pagare. La risposta ricevuta dalla maggioranza: “Eh no, no possiamo fare ricevute perché l’amministrazione parte dalla Curia”. E come si giustificano le offerte? Probabilmente non si potrebbero giustificare né in bilancio né di fronte a Dio. In un quartiere dell’area occidentale di Napoli, c’è un prete che addirittura chiede in anticipo il venti per cento dell‘offerta, perché, spiega “in passato è capitato che gli sposi, dopo il matrimonio, non abbiano ottemperato al pagamento dell’offerta”. Colpa della crisi economica. Il prete in questione mostra la sua fratellanza e vicinanza ai neo coniugi proponendo un pagamento dilazionato nel tempo: il venti per cento subito, il resto il giorno della funzione religiosa. Quindi, l’anticipo obbligato (“altrimenti non vi sposo”), sull’offerta anch’essa obbligata, diventa il punto di partenza del matrimonio. Altro che amore e fede religiosa: qui si parla innanzitutto di soldi. E l’affare delle offerte riguarda anche gli altri sacramenti, quali battesimi e comunioni, anche se l’imposizione di una tariffa fissa è una (brutta) abitudine che i preti hanno preso soprattutto sui matrimoni. Questo, infatti, è il sacramento in cui le famiglie degli sposi tengono molto ad allestire la chiesa con fiori profumati e variopinti e, affinché tutto sia perfetto, sono disposti a mettere mano alla tasca per pagare il fotografo così come il prete. In una chiesa del centro antico di Napoli, addirittura, qualche tempo fa il parroco aveva messo per iscritto la cifra dell’offerta da dare in caso di matrimonio. Un caso clamoroso viene da un Comune al confine tra Benevento e Caserta, dove il parroco dell’unica chiesa presente, appassionato e proprietario di auto d’epoca, affitta agli sposi una delle sue macchine di inizio Novecento ancora marcianti alla modica cifra di 500 euro, oltre all’offerta, mettendosi in tasca circa mille euro a matrimonio. Eppure, esattamente quattro anni fa, visto il proliferare di richieste di offerte obbligatorie da parte dei parroci del Napoletano, il vescovo di Nola, Beniamino Depalma, uscì allo scoperto e pose il veto nei confronti di questo comportamento paragonandolo a quello che si ha al mercato tra venditore ed acquirente. “I sacramenti non si vendono. Nessuno pretenda più offerte nel nome del Signore”: era il 22 giugno del 2010 quando il vescovo di Nola scrisse ai sacerdoti della diocesi invitandoli a non chiedere più oboli per celebrare battesimi, cresime, comunioni e matrimoni. “Rinunciate senza ambiguità a donazioni obbligatorie e vincolanti – si leggeva nella lettera del presule – . Ha senso chiamare “offerta” qualcosa che vincola?”. Insomma, niente tariffari preordinati. Il richiamo ad interrompere una pratica ormai diventata consuetudine è contenuto in una lettera che il pastore della Chiesa di Nola inviò ai sacerdoti in occasione della conclusione dell’anno sacerdotale indetto da Papa Benedetto XVI. Nella missiva ovviamente non c’era scritto, d’altronde non sarebbe stato neanche necessario, ma l’obiettivo che traspariva era quello di far sì che quella che era diventata una voce di spesa fissa inserita nel bilancio di quelle da sostenere quando ci si sposa o si battezza un bimbo, fosse tornata ad essere un gesto volontario, fatto con il cuore e non una sorta di tassa dovuta come quando si acquista un bene materiale. «Il sacerdozio, dono immenso per la nostra vita, assume pienamente senso quando diviene dono grande per la vita dei nostri fratelli”, si leggeva nella missiva di Depalma. Più che un provvedimento, la lettera era un proposta avallata dal fatto che il vescovo di Nola sottolineava di aver ricevuto il conforto del parere positivo del consiglio presbiteriale. “Il tutto – scriveva ancora il successore di San Paolino – per dare corpo all’ideale della gratuità che in Cristo Signore ci anima, per essere realmente solidali con le difficoltà economiche delle famiglie”. Un modo, insomma, per non pesare sui bilanci delle famiglie in tempi di recessione. Ma anche il sistema per sconfiggere un malcostume che, sia pur dettato dalle esigenze di cassa dalle quali nemmeno la Chiesa è immune, ormai dilaga da anni anche negli ambienti religiosi. Ed era proprio per quest’ultima necessità, ovvero per evitare che passi la tesi che anche credere in Dio sia diventato un lusso e soprattutto per evitare sospetti e maldicenze che il vescovo invitata i parroci a “dar vita, in tutte le comunità, al consiglio degli affari economici, composto dal parroco insieme con laici competenti”. “Il suo compito – scriveva Depalma – è ampio e importante: dar evidenza pubblica e trasparente, senza alcuna omissione, delle spese che la parrocchia deve sostenere, aiutare umilmente e in comunione il parroco nella corretta gestione delle entrate e delle uscite, finalizzare le offerte e le raccolte a specifici e documentabili progetti pastorali e missionari, sostenere collette mirate previste dalla Chiesa diocesana, dalla Cei e dalla Chiesa universale”. Infine, nella lettera la proposta diventava un’accorata sollecitazione: «Che nessun uomo, e nessuna donna, escano dalle nostre chiese con la sensazione di aver comprato un beneficio che il Signore elargisce secondo la ricchezza del Suo cuore. I presbiteri accolgano con gioia e gratitudine doni sinceri e liberi, ma sappiano sorridere anche di fronte alla mano chiusa, certi che Dio Padre non farà mancare il proprio sostegno». Firmato, padre Beniamino. Poi, due anni fa, nel gennaio del 2012, sulla questione intervenne anche il Cardinale di Napoli, Crescenzio Sepe, che ha avuto il merito di uscire allo scoperto e dire ai preti napoletani che “la devono finire di fissare tariffe precise per amministrare i sacramenti e le funzioni, e che le offerte in denaro da parte dei fedeli devono essere libere”. “Immaginiamo Gesù alle nozze di Cana chiedere agli sposi – spiegò Sepe – che sembra fossero suoi cugini, cinquanta sesterzi e poi aggiungere: “Mi dovete un supplemento per il cambiamento dell’acqua in vino e poi da centocinquanta si passa a trecento perché la zona è panoramica”. Oppure, vi sembra mai possibile che Gesù potesse chiedere venti sesterzi alla vedova di Naim, prima di risuscitarle il figlio morto?”. Così, scherzando, Sepe sintetizzò quanto scritto in una lettera alla comunità della Chiesa di Napoli, intitolata “Per amore del mio popolo”, dove diceva chiaramente che “far pagare i sacramenti è un segno di degrado, indica che ci siamo incancreniti”; dove ricordava il Vangelo di Matteo (“Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”) ed ammoniva: “Che nessuno esca dalle nostre chiese con la sensazione di aver comprato un beneficio che il Signore elargisce secondo la ricchezza del suo cuore! A tutti dobbiamo offrire il volto di una Chiesa animata dal solo desiderio di servire, senza nulla a pretendere”. A Napoli, oggi come due anni fa, la situazione è davvero divenuta eccessiva in merito all’argomento. Troppa gente che fa il prete come fosse solo un lavoro. E che dimentica che il parroco viene già retribuito dalla Curia per le funzioni religiose che amministra. Il malcostume di pretendere una cifra fissa come “offerta” agli sposi, ed in generale anche agli altri sacramenti, è qualcosa che si verifica in tutta Italia. Anzi, è proprio la tradizione italiana ad imporci di fissare delle tariffe precise per la celebrazione di matrimoni, cresime e battesimi. Tanto che, alcune persone anziane danno per scontato il fatto che si debba pagare il parroco a parte e quella che dovrebbe essere un’offerta in denaro liberamente data dal fedele, diventa un’imposizione precisamente indicata dal presule. Questo malcostume è sempre esistito, purtroppo, ma l’impressione è che si sia intensificato negli ultimi anni, nonostante la crisi economica che ha travolto le famiglie italiane, insieme ad altre voci “burocratiche” come l’orario di ricevimento dei fedeli da parte del sacerdote e addirittura la fissazione di giorni ed ore in cui si effettuano le confessioni. Novità, queste, che sono difficili da accettare e persino da concepire per chi ha ancora in mente la figura di certi preti di una volta, quelli che erano sempre disponibili, pronti a ricevere ed ascoltare tutti a qualunque ora, quelli che rappresentavano una sicurezza, una guida spirituale vera e propria, in grado di dare conforto e perfino insegnamenti morali. Un prete alla “Don Camillo e Peppone”, per intenderci. Molti, troppi preti più giovani, evidentemente intendono il sacerdozio non come una missione, ma come un lavoro. Un lavoro che, come tutti gli altri lavori, ha i suoi orari e le sue tariffe fisse. Un’usanza eticamente discutibile che a Napoli, in certi casi (pochi per fortuna), finisce nel diventare quasi un’estorsione ai danni degli sposini. Anche se i fedeli napoletani sono abituati al concetto espresso da un proverbio popolare: “Senza soldi non si cantano messe”.

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