Francesco II di Borbone l’ultimo della dinastia
Il 27 dicembre ricorre l’anniversario della scomparsa di Francesco II di Borbone, ultimo discendente di una dinastia che aveva regnato nel sud Italia per ben 126 anni. Salito al trono appena ventiquattrenne, il 22 maggio 1859, alla morte del padre, Ferdinando II, fu deposto il 13 febbraio del 1861 dopo l’annessione del Regno delle Due Sicilie al Regno d’Italia. Discendente di Carlo III di Borbone, di quel Re illuminato e riformista, che rese il regno di Napoli e di Sicilia finalmente indipendente e sovrano, dopo secoli di dominazione straniera. Francesco era il figlio di Maria Cristina di Savoia, la reginella santa, la figlia di Vittorio Emanuele I di Savoia, la cui beatificazione, avvenuta il 25 gennaio del 2014 nella Basilica di Santa Chiara, ha avuto il privilegio di unire, dopo centocinquant’anni di discordie, due case reali, quella dei Borbone e dei Savoia, contrapposte e divise tra loro da quegli interessi di Stato che avevano portato all’Unità d’Italia. Francesco II, nel pomeriggio del 27 dicembre del 1894, concludeva la sua vita terrena ad Arco di Trento, in triste solitudine, lontano dalla sua terra e dai suoi affetti. Il testamento, che scrisse di sua mano poco prima di congedarsi dalla scena del mondo, è l’ espressione della sua personalità, nobile e dignitosa, leale e generosa, dove fede, umiltà e carità costituivano un tutt’uno, esaltandone la sua regalità:“Ringrazio tutti coloro che mi hanno fatto del bene, perdono a coloro che mi hanno fatto del male e domando scusa a coloro ai quali ho in qualche modo nuociuto”. Napoli apprese la notizia della morte prematura del re Francesco II di Borbone dalle colonne de “Il Mattino”. Matilde Serao, giornalista liberale ed antiborbonica, fondatrice e direttrice del Mattino, alla notizia della scomparsa, scrisse in prima pagina un articolo dal titolo «Il Re di Napoli».La salma di Francesco II, vestita con abiti civili su cui spiccavano le decorazioni e fra queste la medaglia al valore militare per la difesa di Gaeta, restò esposta nella camera ardente fino alla sera del 29 dicembre. Eppure questo Re, di altissimo profilo morale, umano e intellettuale, come si evince dal ritratto che ne fa la scrittrice Matilde Serao, è passato alla storia con un nomignolo irriguardoso, offensivo, canzonatorio, più forte di ogni altro critico giudizio politico e storico, come “Franceschiello”, un epiteto dispregiativo per sminuirne la figura e renderne insignificante l’operato. Nella storiografia risorgimentale e post –unitaria, mentre Vittorio Emanuele II fu noto come “il re galantuomo” o “il padre della patria”, Cavour come “il tessitore”, Garibaldi “L’eroe dei due mondi”, Enrico Cialdini “il generale di ferro”, il sovrano delle Due Sicilie, sconfitto e detronizzato, si vide, invece, affibbiare questo malevolo soprannome di “Franceschiello”, un nomignolo datogli dai cronisti dell’epoca per ridicolizzare la figura di un sovrano che aveva perso il proprio Regno. La storiografia post unitaria ha consegnato ai posteri un’immagine di Francesco, come di un Re incapace di gestire, in un momento di grande trasformazione della storia del sud, quella pesante eredità lasciatagli dal padre Ferdinando II; come di un Re perdente, trascinato sugli spalti di Gaeta, più che dalle sue convinzioni personali, dall’entusiasmo incosciente della sua giovane sposa, Maria Sofia di Baviera, passata alla storia come l’eroina di Gaeta. Tuttavia, se si mette in dubbio il percorso risorgimentale, non si può negare il progresso scientifico e tecnologico, sociale e civile del Regno delle Due Sicilie. È accertato, infatti, da documentazioni storiche, che nelle Due Sicilie era stata costruita la prima nave a vapore nel Mediterraneo (1818); la prima linea ferroviaria italiana (Napoli-Portici, 1839); la prima illuminazione a gas in Italia (1839); il primo osservatorio vulcanologico del mondo, l’Osservatorio Vesuviano (1841); Che il Regno possedeva impianti industriali i più avanzati d’Italia, come la fabbrica metalmeccanica di Pietrarsa, il Cantiere navale di Castellammare di Stabia, il Polo siderurgico di Mongiana e quello tessile, settecentesco, di San Leucio, oggi patrimonio dell’UNESCO, e ancora, il più alto numero di tipografie (113) e di pubblicazioni di giornali e riviste; il più alto numero di conservatori musicali e di teatri, fra cui il famoso San Carlo (1737), tuttora il più antico teatro d’opera d’Europa in attività. A Napoli, infine, era stata fondata la prima cattedra di economia politica a livello mondiale, nata ad opera di Antonio Genovesi nel 1754 nell’ambito dell’università Federico II, la più antica università statale d’Europa. Sono trascorsi ormai centocinquantacinque anni da quel lontano 1861, e mentre il dibattito storiografico sul Risorgimento continua, da più parti si reclama il diritto alla verità storica, la cui conoscenza e divulgazione non può più essere rinviata. Una verità storica che riconosca il contributo dato dal sud all’unità d’Italia, ma anche per colmare quei vuoti della memoria responsabili di grandi lacerazioni, a partire da quel pregiudizio antimeridionale, alimentato all’epoca dell’Unità dal pensiero positivista, che ha avuto derive razziste prese a modello anche in altri momenti della storia.
Ersilia di Palo
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